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Il Mondo

LA MORTE
Io la chiamo la ricompensa.
Mi spiego: credo sia qualcosa che va meritata. Insomma, uno deve vivere, nel tempo che ha a disposizione, perché se arriva la ricompensa se la sia meritata. Non è che bisogna fare cose strane, fantastiche, difficili o terribili. Basta darsi da fare a vivere. Sfruttare la frutta finché c’è, gustarsi il succo della vita, insomma darci dentro, nel modo che ci viene più congeniale, ovvio. Credo di essermi meritato la mia ricompensa finora. Quando vuole, passi pure.

UN ESERCITO DI MORTI
Ok, siamo qui. Siamo nati, siamo cresciuti e siamo qui. Ero in macchina con Stuart ed erano le tre del mattino. Lo stavo guardando di sbieco e d’improvviso ho avuto un brutto flash: me lo vedo cadavere, mezzo putrefatto, con i vermi che gli cascavano pigramente dagli occhi sul davanti della camicia. Ho pensato nasciamo, cresciamo, beviamo, mangiamo, fumiamo, caghiamo, amiamo, odiamo, lottiamo, vinciamo, perdiamo, facciamo successo oppure no, siamo felici, nevrotici, insoddisfatti, affascinanti, indifesi o crudeli, e poi moriamo tutti quanti.
Ma facciamo dei figli. E loro nascono, crescono, bevono, mangiano, fumano...
...e poi moriranno tutti quanti. Ma prima faranno dei figli. Che moriranno tutti quanti. E prima di noi sono morti i nostri padri, i nostri nonni, i bisnonni. Un esercito di morti alle spalle, uno sterminato camposanto che si stende dalla nascita dell’uomo ad oggi, e via verso il futuro, all’infinito. Arriveremo a morire sulla Luna, su Marte, su Alpha Centauri.

Poi Stuart mi ha detto: Cazzo hai da fissarmi così?

MORIRE DA SOLO
Ero a Peschiera del Garda, in campeggio con alcuni amici. Era il 1989 e avevo 18 anni. Vado a fare il bagno al lago, l’acqua è fredda e piacevole. Gonfio un materassino e mi lascio cullare a mollo. Dopo un po' mi prude tutta la schiena. Mi gratto, mi rigratto, non passa. Anzi, aumenta. Seccato, torno a riva. Ci metto qualche secondo ad accorgermi che mezza spiaggia si sta grattando furiosamente. È palese, nell’acqua c’è qualcosa che non fa troppo bene. La schiena comincia a pizzicare, il prurito aumenta pure. In pochi minuti siamo alla reception a litigare con la responsabile. Una folla di seminudi intenti a grattarsi come scimmie. La responsabile è incredibilmente antipatica. Il dottore del camping non c’è, dice. Arriva tra un’oretta, dice. Se mi gratto per un’oretta così muoio penso io. Lo pensano anche altri, e pensiamo anche tutti parecchie altre cosette della responsabile e dell’organizzazione del camping. Decidiamo, tutti insieme, di dirglielo. Ci fa’ sentire meglio, ma non diminuisce il prurito. Anzi, aumenta ancora. In breve la situazione degenera. Tutti in costume a saltare sulle macchine per andare al pronto soccorso. Mi infilo in una familiare tra due bambini che si grattano furiosamente. Al volante un papà che guida con una mano e si gratta con l’altra dice alla moglie di smetterla di grattarsi le ginocchia in quel modo. Se non fossi così furibondo potrei riderne, ma sono così furibondo. Al P.S. si attende un dottore e mi accorgo che a furia di grattarmi sto sanguinando dalla schiena. Eppure non posso fermarmi. La hall è piena di bagnanti che si spellano come me. Arriva un dottore, ci spiega rapido che non è un’orticaria infettiva, è lo scarico di una fabbrica di detersivi che una volta all’anno spande merda nel lago. Ciò aumenta il mio buonumore. La terapia scelta dal medico è una dose di cortisone per tutti. Mi metto per primo. Porgo il braccio e me la spara in endovena. Non mi sono mai piaciuti gli aghi, ma in quel momento sono pronto a farmi infilare un vibratore nel sedere pur di smettere di grattarmi. Mi alzo, mi appoggio al mobile di ferro e diventa tutto molto buio. Quando la luce si riaccende mi sembra che tutti stiano urlandomi nelle orecchie. Un’infermiera mi tiene i piedi in alto, due altri mi tengono le braccia, qualcuno mi ha infilato in bocca un cucchiaio e sento sulla lingua il sapore del sangue e il naso mi fa un male boia. All’inizio non ricordo nulla. Devo aver fatto una ceffa in moto, penso. Come saprò solo alcune ore dopo invece ero solo allergico al cortisone. Ero svenuto e avevo avuto delle simpatiche convulsioni. Per inciso nel cascare a terra avevo preso con il naso un bidone di plastica e mi ero salvato i denti dalle piastrelle. Che culo vero? Svengo di nuovo. Altro giro altra corsa. Per farla breve mi ritrovo su una lettiga, con vari dottori che mi punzecchiano con strani strumenti. Vado e vengo. Quando ci sono per la terza volta, un dottore mi chiede assai gentile come mi chiamo. Stefano, gli dico. Mmmmm fa lui, tutto gentile e pensieroso: ma di cognome? Ti ricordi il numero di telefono di casa tua? Ero down, ok, ma il cervelletto faceva ancora due più due. Ero in un P.S., in costume da bagno. Chi mi ci aveva portato non sapeva neppure chi fossi. Le mani, da come le vedevo, erano verdi come gli asparagi bolliti. Qui rischio di lasciarci le penne, penso. Mi dici il telefono di casa tua per favore? Dice il dottore.
Neanche per sogno, rispondo io.
A no davvero, no grazie. Se devo salpare, che sia. Ma di avere attorno una mamma piangente e un padre affranto, no grazie. Per loro, esserci o saperlo dopo non cambia mica molto in fondo. Ma per me sì. Eccome. Lasciatemi filare in compagnia di una infermiera carina semmai. O da solo, che va benissimo. Il dottore si incazza assai. Ma si vede che sto male davvero e se la sta facendo sotto, perché non strilla ma gira sui tacchi e fila. Miracolo, una delle infermiere è davvero carina!
Come che sia. Passano cinque ore. Dopo un po' la smetto di andare e venire e le mani passano al bianco latte. Tutti sorridono di più. Quando mi riesco ad alzare in piedi mi hanno spiegato tutto sul cortisone, sugli scarichi dei detersivi e mi fanno firmare che sto benone e che me la filo di mia sponte. Ritrovo nell’atrio uno dei miei amici, reduce da una puntura di cortisone nelle chiappe (le facevano intramuscolari dopo la mia, sbagliando si impara), che mi riporta al campeggio. Mi evito la fatica di smontare la tenda e vengo riportato a casa come un ferito di guerra. I segni sulla schiena mi sono spariti dopo quasi due settimane. Ma avevo imparato una cosetta su di me. Se devo morire e posso scegliere, lasciatemi solo.

Stefano Re © 1997
da Tracce