Siamo giovani, siamo sani, siamo annoiati, terribilmente annoiati, e della vita non ce ne frega assolutamente niente. Nel monologo iniziale del protagonista, un giovane eroinomane scozzese, viene chiarito il punto fondamentale che darà a tutto il film la sua originalità: questi drogati stanno anni luce lontano da Cristiana F. e la sua realtà deragliata. Nessuno li ha imbrogliati, se non nel vendergli roba a basso prezzo o di scarsa qualità. Nessuno li ha tenuti all'oscuro dei rischi, dell'AIDS, della dipendenza. Loro lo sanno perfettamente, semplicemente se ne fregano. Perché la vita è uno schifo, il governo è una fregatura, le donne delle rompiscatole ingestibili, i collloqui di lavoro delle vere rotture e soffrire per tutto questo non rientra nei programmi di Mark e compagnia. Loro non vogliono finire seduti sulle panchine a guardare i treni che passano (trainspotting) per dimenticare una vita triste e inutile. Per questo scelgono di drogarsi fino al disfacimento, di rubare sghignazzando nei negozi e trovano esilarante venire rincorsi dalla polizia, finire investiti da una macchina o vomitare nei cessi pubblici in cui rapinano poveracci di passaggio. Grotteschi sembrano i genitori che cercano di aiutare Marc a smettere, grottesco pare il mondo triste, stanco che attorno ai protagonisti gira indifferente. Smettere, ricominciare, sono solo mosse che movimentano la partita. Un montaggio geniale, un cast perfettamente intonato e una colonna sonora che entra nella storia come in un videoclip completano il quadro. Seconda prova sul grande schermo di Danny Boyle dopo Piccoli omicidi tra amici, in cui il regista inglese mostrava già il suo gusto per il paradossale e la sua capacità di passare con nonchalance dal drammatico al grottesco al macabro al comico e ritorno, Trainspotting è un film da collezione.