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Love

L'AMORE E IL SONNO
Guardai l'orologio. Le tre e venti. Distolsi gli occhi di malavoglia dal quadrante per cercare un posto dove parcheggiare la Croma. Anche a quell'ora di notte i marciapiedi ai due lati della strada erano costeggiati da due file parallele di auto in sosta. Dovetti avanzare di una trentina di metri oltre l'insegna al neon del bar per poter lasciare la macchina. E faticai non poco a sistemarla tra una Punto nuovo modello e una Citroën. La Citroën aveva il paraurti tutto ammaccato. Mi augurai che non dipendesse dalla bravura del conducente nel parcheggiare. Il sonno mi pesava sulle palpebre come una maledizione. Lasciai che le gambe tenessero il ritmo che più pareva loro per quei trenta metri, contando mentalmente i passi, le mani rifugiate nelle tasche a cercare la moneta. Avrei voluto pagare giusto il prezzo delle Lucky Lights, infilarmi una sigaretta in bocca e guidare fino a casa. Presto e bene. E invece niente, una misera monetina da cinquanta lire. Solitaria e patetica. Riflettei che mi sarei dovuto sorbire le chiacchiere di Max mentre contava e ricontava il resto tra le dita grasse. Gettai la moneta nel prato al di là della strada ed entrai al Bar Moderno, che avevo sempre chiamato soltanto 'da Max'. Entrando, mi accorsi che erano almeno due anni che non ci mettevo piede. Era pieno zeppo, come sempre. E non si respirava per il fumo, come sempre. All'improvviso mi sembrò di tornare indietro di una decina d'anni, ai tempi d'oro delle sbronze e delle serate tirate fino al mattino. Roba da pazzi. Roba da giovani, il che è spesso la stessa cosa. Oramai ero finito dall'altra parte della barricata, tra quelli che aprono le finestre la sera per gridare di smetterla con quel baccano ai ragazzi di sotto, intenti a cantare, sbronzi come marinai innamorati. Forse, in quel gesto c'è l'invidia di chi non se lo può più permettere. Ma quella sera mi sentii improvvisamente di nuovo stordito dalla voglia di fare, con quei formicolii attorno ai fianchi e le energie che non sanno più da dove sprizzare. urò soltanto un attimo. Mi accodai con un sorriso tirato sulle labbra, mentre il sonno tornava ad impadronirsi del mio corpo di trent'anni. Max si agitava dietro al bancone, sempre grasso come me lo ricordavo dall'ultima volta. Aveva una camicia macchiata e aperta sul petto, con quei peli scuri che gli arrivavano fino al collo. Mentre aspettavo il mio turno alla cassa mi girai un po' di lato sperando che lui non mi notasse, per evitare che potesse prepararsi un bel discorsetto da snocciolarmi tenendo in ostaggio il mio resto. L'idea era coglierlo di sorpresa e sfuggirgli con una scusa qualunque. Mentre gli davo spalle lasciai scorrere lo sguardo per la sala, fino al Mitico Tavolo d'Angolo. Il tavolo delle sbronze notturne, delle chiacchiere infinite. Il tavolo dove avevo iniziato a fumare. Alex se ne stava seduto laggiù, proprio sulla sedia contro la prete, come ai vecchi tempi. Solo che non c'erano le birre vuote sul tavolo, la selva di Ceres che fioriva puntualmente sul tavolo di plastica al nostro passaggio. Se ne stava lì seduto, il vecchio Alex, con un bicchiere quadrato pieni di liquido giallo intenso posato davanti, stranamente solo. Ero entrato soltanto per le sigarette, e le palpebre pesavano una tonnellata, ma erano anni che non vedevo Alex, e sonno o meno l'avrei salutato. Lo raggiunsi al tavolo, in mezzo alla nebbia di tabacco. "Chi non muore si rivede!" esclamai, ridendo.
E quando lui mi puntò gli occhi addosso in quel modo pensai di aver fatto un errore di persona. In effetti, un errore l'avevo fatto, ma l'avrei capito solo più tardi. Quegli occhi sembravano appartenere ad un pazzo, o ad un drogato. Mi fissavano come per uccidermi, tanto che feci un passo indietro. Ma era lui, quell'Alessandro Corda con cui avevo diviso gli anni della mia adolescenza. Allora lui inclinò la testa da un lato, ed il suo sguardo si fece pensoso, come chi calcola il tempo passato. "Accidenti, Alex, non credevo di essere cambiato tanto." Dissi, allargando le braccia. Socchiuse gli occhi con un sorriso strano, che non riuscii a capire, e prese a fare dei piccolissimi cenni con il capo. Sembrava voler dire: Sì, ho capito adesso. Ero io a non capire. "Oscar, detto 'car'." Rise tra sé. "E' un bel po' che non passi qui da Max, vero?" ricambiai il sorriso e mi sedetti con lui. Al mio vecchio posto di sbronza. "Oh beh, è parecchio sì. Impegni.. lavoro parecchio, sai? Il mio studio comincia ad avere clienti di una certa rilevanza, ed a me non lasciano più un attimo di tregua. Anche stasera, fino ad un quarto d'ora fa ero in ufficio a sistemare una pratica. Una barba, se vuoi sentire la mia." Lui annui lentamente. "E poi, ecco, mi sono trovato una donna anch'io." Sorrisi nel dirlo. Alex era sposato da due anni con Sue. La ragazza più fantastica che si possa immaginare. Non solo perché era bellissima. Era anche simpatica, sincera, piena di spirito, intelligente.. uno di quegli angeli in terra che quando li incontri ti chiedi perché mai siano scesi quaggiù dal paradiso. Me la ricordo (credo che me la ricorderò per sempre) mentre rideva alle mie battute, una notte di almeno cinque anni fa, intorno ad un falò su una spiaggia dell'Adriatico, le fiamme che le coloravano il viso perfetto facendole brillare gli occhi in modo sovrumano, ed io mai avevo desiderato qualcosa in tutta la mia vita di più di lei quella sera. Né mai, in seguito.
Avrei portato per sempre quell'immagine in un cassetto del mio cuore, anche dopo averne dimenticato l'esistenza. Mi ero innamorato di lei quella notte, e probabilmente lo sarei sempre stato. Mi chiesi se in quegli ultimi due anni avessi allentato con Alex davvero per necessità, o se in realtà la nostra amicizia era franata sulla mia gelosia, che forse era solo invidia. Debolezza. Certo, Sue era una donna fantastica, e Alex lo sapeva. Per questo ridevo nel dirgli che anch'io avevo una donna. Perché lui sapeva che significava una per cui valga la pena. Avevamo passato anni, noi due, a scambiarci ragazze, persi in amori folli di giovani pazzi ma vivi, fino a quando era arrivata Sue. Con lei era stato diverso fin dal principio. Avevo capito subito che erano fatti l'uno per l'altra, come ciliege gemelle. Semplicemente non l'avevo mai accettato. Li avevo osservati cercarsi, conoscersi, cominciare ad amarsi, sopportando il mio dolore ed isolandomi da loro, incapace di allontanarmi da lei, alimentando una speranza che sapevo essere vana. Ma quando i giochi erano stati fatti, quando Alex e Sue si erano sposati, ero fuggito. Questa era la triste verità. Ero fuggito nel mio studiare maniacale, nella corsa a laurearmi prima del tempo, nel tirocinio allo studio legale di mio padre. Di tanto in tanto, avevo saputo di loro, da parte di amici comuni con cui ero rimasto in contatto. Avevo saputo che erano felici, e che vivevano l'uno per l'altra. Ma erano cose che sapevo già da prima di loro due. Tanto crudele è talvolta il destino nel donare la conoscenza delle cose. Erano passati due anni da allora, ed acqua sotto i ponti. Quella sera di settembre sorseggiammo il whisky insieme, e fumai le sue sigarette, per non dovermi fare una fila di dieci minuti al bancone. Come ai vecchi tempi. Gli parlai della mia compagna, di come ci eravamo conosciuti sul lavoro, e gli dissi che intendevo sposarla, anche se non era del tutto vero. Ci avevo pensato, certo, ma non c'era niente di sicuro. Solo che il tavolo, l'atmosfera del bar e tutto il resto mi avevano sciolto la lingua. Mi sentivo a casa. Come non mi capitava più da parecchio. Lui non pareva molto a suo agio, invece. Anche se il tempo aveva allentato il feeling tra di noi, potevo capire che qualcosa non andava in lui. E quello sguardo che mi aveva gettato addosso all'inizio mi era rimasto impresso, e svolazzava come un fantasma ai margini della mia coscienza, come un messaggero incapace di portare a termine il suo compito. Non era da lui, quell'aria triste e mogia. Ma in due anni cambiano tante cose, mi dissi. "Come sta Sue?" buttai lì. "Ti ha sciolto le briglie?" Ci scherzavo sopra. Dal giorno in cui si erano messi insieme, cinque anni prima, non li avevo praticamente mai visti una volta da soli. E intendo dire proprio mai. Ma non era lei ad imbrigliarlo, né viceversa. Succedeva spontaneamente. Sembrava che non potessero respirare senza l'altro di fianco. C'era stata una volta in cui Alex si era fatto buttare fuori da un club per soli uomini pur di non lasciarla fuori con le amiche. "Già," rispose, "è via adesso. Purtroppo non ho potuto raggiungerla subito, ma penso.. penso di farlo questa notte." Annuii, sorridendo sornione, mentre cercavo di ricordarmi se Linate faceva ancora i voli notturni. Perché se non si fosse trattato di un posto così lontano, ero certo che Alex sarebbe già stato lì. "Mai senza di lei, vero?" Mi guardò, e c'era quasi della tristezza, in quello sguardo. "Sì" rispose semplicemente. Aveva girato gli occhi verso un punto fuori dai vetri, nel cielo nero, illuminato dalle luci della città. Lasciai cadere il discorso. Se aveva dei problemi con Sue era chiaro che non ne voleva parlare. Almeno, non con me. Ma di cose da dirci ce n'erano anche troppe. Ricordammo insieme le notti passate a zonzo sulle spiagge d'estate, sui marciapiedi cittadini d'inverno. Notti di adolescenti nelle cabine delle vecchie macchine accatastate dallo sfasciacarrozze vicino alla discarica, attenti a non tagliarsi con il metallo arrugginito. Ricordammo i discorsi di libertà, e lui mi ripeté una frase che per un attimo mi fece davvero sentire un sedicenne sdraiato sopra una stuoia sfilacciata, perso a guardare il cielo stellato su una spiaggia dell'adriatico. "Quando bisogna andarsene, bisogna farlo al buio. Ci vuole la pietà delle tenebre, capisci cosa intendo?" "Capisco" avevo detto allora. Ma non ero mai stato sicuro di capire davvero.
Parlammo delle gare al tiro a segno, e della nostra comune passione per le armi da fuoco. Dopo esserci accontentati di archi e balestre per anni, con la maggiore età ci precipitammo al poligono di Piazzale Accursio, a Milano, a fare le carte per il porto d'armi per tiro sportivo. Non fu una cosa facile, neanche allora. Pochi anni dopo avrebbero abolito quella opzione, ma noi ci si infilò per un capello, e tempo sei mesi eravamo in corsia a fare fiammate. Io adoperavo molto bene la Beretta 7 e 75, ma la mia passione era la vecchia Pyton 350. Alex acquistò una Browning calibro 9, brutta ma potente. Ed era una felicità vedere le sagome infittirsi di fori dei proiettili in fondo alle gallerie di tiro, sentire l'odore della cordite ed il fragore attutito degli spari attraverso le cuffie del poligono. Altri tempi. Il sonno tornò a bussare dalle orbite nascoste dietro i miei occhi. Anche Alex sembrava stanco, e continuava a gettare occhiate nervose all'orologio. Io evitai di farlo consapevolmente. Anche se stanco, Alex mi sembrò più rilassato di come l'avevo trovato al mio arrivo. Ci alzammo insieme. Cercai di fissare un appuntamento per la settimana successiva, ma lui scrollò il capo con un sorriso un po' triste. "No, mi dispiace. Ti ringrazio dell'offerta, ma intendo raggiungere Sue stanotte." "Beh," insistei, "allora facciamo per quando tornate. Starete via parecchio?" lui mi parve imbarazzato. Rispose fissando le sue mani che gesticolavano. "Parecchio, credo.. senti, vedremo, ok? È stata una bella chiacchierata. Mi è piaciuto ricordare certe cose. Ora devo proprio andare." Tese la mano. La strinsi con un sorriso. Anch'io ero felice di averlo rivisto, di avere messo una piccola pietra sul mio passato di dolore e gelosia, su quell'invidia di cui mi ero sempre segretamente vergognato. Aveva già pagato il liquore, ed uscimmo insieme dal locale al fresco della sera. Ci salutammo ancora, e Alex mi disse: "Grazie, Oscar. È stato proprio bello, ricordare." Sorrisi ancora, un po' imbarazzato. Non me l'ero mai cavata troppo con i saluti. Fece un cenno e s'incamminò verso il proprio mezzo. Io feci lo stesso, e nel percorrere quei trenta metri mi sentii pesare addosso tutti e trenta i miei anni.
Avevo già infilato la chiave nel cruscotto quando ricordai le sigarette. Proprio come un ragazzino. Pensai tra me. Guardai l'ora. Le quattro meno dieci. Sospirai, uscendo dalla croma. Contai mentalmente i passi lungo i trenta metri di marciapiede, mente il sonno mi tendeva degli agguati improvvisi. Per fortuna nel locale non c'era più molta gente. Niente coda al bancone. Il bar si era svuotato mentre parlavo con Alex. "Hey Max, quanto tempo - cercai di tagliar corto - mi allunghi due pacchetti di Lucky Lights che filo a nanna?" il volto tondo di Max, come quello di quasi tutti i grassoni, esprimeva allegria, con quella bocca larga sempre sorridente e le folte sopracciglia nere che andavano su e giù in continuazione. Ma quella sera la sua bocca larga non sorrideva. "Salve Oscar. Sei cambiato parecchio dall'ultima volta che ti ho visto. Sembri una persona seria con quell'impermeabile e la cravatta." Si puliva le mani con uno straccio bianco a fiorellini. La camicia era sempre macchiata ed aperta sul petto. "Tu invece sei sempre lo stesso, max. Mi dai le sigarette?" annuì, ciondolando dietro al bancone. "Certo Oscar. Fumi più leggero adesso eh? Fai bene con quello che succede.. ti ho visto che parlavi con Alex, al vostro vecchio tavolo, sai? È un vero peccato, non credi?"
Lo sapevo. Voleva chiacchierare. Cristo dio io stavo per addormentarmi lì in piedi. Guardando l'orologio dissi distrattamente: "cosa è un peccato Max?" lui si girò lentamente a prendere i pacchetti dallo scaffale, poi si avvicinò al banco e si sporse verso di me. "Sue, intendo. Si chiamava Sue, no?" disse piano. Appoggiò le sigarette sul bancone. Mi affrettai a passargli la banconota da cinquanta, ritirando i pacchetti rossi e bianchi. "Sue, sua moglie. La conoscevi, no?" ripetè. Lo guardai. "Sua moglie cosa?" Max sembrava imbarazzato. "Ma come, Alex non te l'ha detto? ..È stato pochi giorni fa... una disgrazia."
Non avevo più sonno, ora.
Presi il resto direttamente dalle mani di Max e corsi fuori del locale, fino alla macchina, volando su quei trenta metri di asfalto. La Citroën era già ripartita, per fortuna. Partii facendo strillare le gomme sull'asfalto mentre invertivo la marcia come da ragazzo, quando ci si impegnava in corse frenetiche per le vie cittadine. Da dietro i vetri Max mi guardò con la grassa faccia stupita sfrecciare verso il centro città.
Intendo raggiungerla stasera aveva detto Alex. Attraversai un paio di incroci lampeggianti pigiando sul gas come un indiavolato, gli occhi improvvisamente svegli a cercare fari in rotta di coincidenza. Dio fa' che non ci sia una pattuglia della polizia a fermarmi. E grazie a dio niente poliziotti in giro. Alex era stato sempre più veloce di me al volante. Ma in due anni cambiano tante cose... forse Dio non era più in ascolto. Si poteva tentare lo stesso. Fa' che abiti ancora là. Dopotutto era una casa grande per viverci in due. Chi non muore si rivede gli avevo detto io. E il suo sguardo.. ci diedi dentro con il pedale del gas. Le ruote gridavano ad ogni curva, mentre la macchina scodava paurosamente. Arrivai alla piazza. Parcheggiai la croma in sosta vietata e attraversai di corsa la strada. Vedevo il palazzo, dal marciapiede. Contai i piani ad alta voce, correndo attraverso il piazzale. Al quarto la luce era accesa. Forse dio è ancora in ascolto, pensai. Poi la luce si spense, gentilmente. Nella pietà delle tenebre risuonò per i viali della città addormentata la detonazione della Browning calibro 9.
Mi fermai lentamente, e rimasi per un paio di minuti lì in piedi, in ascolto, immobile.
Sentivo le mie energie, la mia giovinezza, scivolare via da me, disperdersi nell'aria fresca, svanire in essa. Il silenzio della notte mi circondava, incredibilmente vuoto. I semafori continuavano a lampeggiare, monotoni.
Tornai alla Croma debolmente, trascinando i piedi. Mi accomodai sul sedile del passeggero ed aprii il primo pacchetto di Lucky Strike. Fumavo con calma, tanto il sonno mi era proprio passato.


Stefano Re © 1991
dalla raccolta Racconti d'amore e morte